I primi amori di san Giovanni Maria Vianney (1786-1859), per tutti “il Curato d’Ars”, furono il Santissimo Sacramento e la Madonna, da lui «amata prima ancora di conoscerla. È il mio affetto più antico». Da Gesù e Maria trasse origine la sua vocazione, da loro la fortezza nelle innumerevoli tribolazioni e fatiche prima di essere ordinato sacerdote, da loro la carità con cui per 41 anni guidò paternamente le anime nella piccola parrocchia di Ars, fino a meritare di essere proclamato da Pio XI nel 1929 patrono di tutti i parroci. «Il Sacerdozio è l’amore del cuore di Gesù», diceva il santo. Era umilissimo, ma consapevole della grandezza del ministero sacerdotale, inscindibile da Cristo, Sommo Sacerdote. «Un buon pastore, un pastore secondo il cuore di Dio, è il più grande tesoro che il buon Dio possa accordare a una parrocchia e uno dei doni più preziosi della Misericordia divina».
Quarto di sei figli, nacque da due contadini nel villaggio francese di Dardilly. Fu educato alla pietà cristiana specialmente dalla madre, che lo portava a Messa con sé nei duri anni della Rivoluzione. Era l’epoca della spaccatura tra i cosiddetti preti giurati, piegatisi all’ideologia giacobina, e i preti refrattari, fedeli alla Chiesa a costo di patire le persecuzioni, prima tra tutte l’allontanamento dalle parrocchie ad opera dei rivoluzionari. I sacerdoti erano perciò spesso costretti a celebrare la liturgia in fienili e altri luoghi di fortuna. Fu in questo clima che il tredicenne Giovanni, cresciuto saldissimo nella fede, ricevette la Prima Comunione in casa di una vedova. Già nella prima infanzia aveva manifestato il suo ardore per Dio, insegnando durante il pascolo del gregge le basi del catechismo alla sorella minore e riunendosi a pregare con altri pastorelli.
Prima le difficoltà economiche del padre, poi gli enormi problemi nell’apprendimento del latino e altre peripezie ne ritardarono la strada verso l’agognato sacerdozio. Ma la Provvidenza non l’abbandonò mai e si servì particolarmente di un buon prete, don Carlo Balley (1751-1817), morto in fama di santità, che era rimasto da subito colpito dalla devozione di Giovanni. Don Balley fu per lui come un secondo padre. Aiutò negli studi quel suo figlio spirituale, pregò e fece penitenza con lui (tutti e due portavano il cilicio e si superavano nelle mortificazioni). Il 13 agosto 1815 arrivò il giorno tanto atteso: Giovanni divenne sacerdote. I primi due anni di ministero li passò al fianco di don Balley, come suo vicario parrocchiale a Écully. Fu lui a dargli l’estrema unzione.
Al santo venne affidata poi la cappellania di Ars, un villaggio di appena 230 anime con attorno diverse osterie e una balera, che avevano corrotto i costumi del popolo. Era il 9 febbraio 1818 quando si mise in cammino verso Ars, distante una trentina di chilometri. Chiese indicazioni, tra una fitta nebbia, a un pastorello. Lo ringraziò così: «Tu mi hai indicato la strada per Ars, io ti insegnerò la strada del Paradiso». Appena giunto a destinazione s’inginocchiò per pregare. Continuò la preghiera nella chiesetta, invocando l’angelo custode della parrocchia. Constatando che l’ignoranza religiosa regnava sovrana, iniziò a dedicarsi all’istruzione cristiana dei fanciulli. Era sempre gioviale e allo stesso tempo rigoroso nel trasmettere gli insegnamenti del catechismo. Diversi decenni dopo i suoi successori ad Ars testimonieranno, con ammirazione, che i loro anziani parrocchiani erano ferratissimi nelle verità di fede.
La sua opera di riforma morale tra gli adulti – con la scomoda ma necessaria lotta ai vizi, che aveva sempre come fine la salvezza delle anime – incontrò più resistenze. Alcuni di loro cercarono di fargli lasciare la parrocchia, ma non se ne ebbe a male. Si ristorava nell’adorare il Santissimo Sacramento, donava ai mendicanti perfino i suoi vestiti e il poco pane fresco. Ma tra le privazioni volontarie e i tormenti inflittigli dal diavolo succedeva che «il buon Dio mi faceva grazie straordinarie». Moltissimi fedeli vissero un autentico rinnovamento nello spirito, guidati da quel singolare pastore che li induceva ad amare il Signore con le lacrime agli occhi. Ars divenne meta di pellegrinaggio già durante la sua vita terrena.
File interminabili di penitenti lo costrinsero a passare fino a 16 ore al giorno in confessionale. «Piango perché voi non piangete», diceva se non vedeva contrizione nei cuori. Fortificava invece nella speranza i peccatori rattristati per le proprie debolezze, parlando loro dolcemente dell’infinita bontà di Dio. Interrompeva le confessioni solo per celebrare Messa. Proprio il modo in cui la celebrava, immedesimandosi con il sacrificio di Gesù in croce, era il più potente mezzo di conversione, capace di commuovere i più tiepidi. «Tutte le buone opere riunite non equivalgono al sacrificio della Messa, perché quelle sono opere di uomini, mentre la Santa Messa è opera di Dio», insegnava. E avvertiva che la santità di un prete dipende tutta dal fervore con cui celebra il mistero eucaristico.