Luigi prese sul serio la frase di Gesu: “Non si può servire a due padroni “
Per capire come fu possibile che san Luigi Gonzaga (1568-1591), il brillante primogenito di una famiglia dell’alta nobiltà che era destinato a diventare marchese, decise risolutamente di lasciare tutto e seguire Cristo, un buon inizio può essere la risposta che diede a quanti non si capacitavano di come potesse rinunciare al marchesato: «Cerco la salvezza, cercatela anche voi! Non si può servire a due padroni».
Luigi, allora appena diciassettenne, aveva già lo sguardo proprio dei santi, proteso verso i beni che contano davvero, quelli eterni. A questa consapevolezza era arrivato nutrendosi di letture cristiane, preghiere e offerte a Dio, al quale chiese, ricorrendo all’intercessione dei santi e innanzitutto della Vergine, il dono dell’umiltà. «Questa virtù», scriveva il santo patrono dei giovani, «non nasce nel nostro terreno, ma bisogna domandarla al Cielo».
Primo degli otto figli di Ferrante Gonzaga, marchese di Castiglione delle Stiviere, nel mantovano, e della contessa Marta di Santena, una donna con molta fede, Luigi fu educato fin dalla prima infanzia alla vita militare, rivelando un carattere vispo (a quattro anni provò l’ebbrezza di caricare il cannone e sparare…) e una grande intelligenza. Capì presto il vuoto del mondo luccicante in cui stava crescendo, fatto di cose effimere e vanità varie, e a sette anni avvenne quella che poi chiamò la sua «conversione dal mondo a Dio». Prese a recitare ogni giorno i sette Salmi penitenziali e l’ufficio della Madonna. Nel 1576 il padre lo mandò alla corte dei Medici, a Firenze, dove giocò pure con la futura regina di Francia (Maria de’ Medici) ma proseguì nel cammino intrapreso: a 10 anni, nella basilica della Santissima Annunziata, fece spontaneamente voto di verginità perpetua e si consacrò a Maria, «come Lei si era consacrata a Dio».
Il suo ardente proposito di fare la volontà del Signore si rafforzò dopo la prima Comunione, che ricevette dalle mani di san Carlo Borromeo, e non si affievolì nemmeno durante i due anni trascorsi come paggio alla corte di Madrid, dove grazie agli esercizi spirituali maturò l’idea di entrare nella Compagna di Gesù. Con l’intento di distogliere il figlio da quel fervore religioso, il padre gli ordinò di fare un giro tra i palazzi nobiliari di Mantova, Parma, Ferrara, Pavia e Torino, sperando magari che potesse invaghirsi di qualche bella coetanea. Ma il giovane Luigi era saldissimo nella sua scelta di donarsi totalmente a Cristo e nel 1585, con il genitore ormai rassegnato, firmò l’atto di rinuncia al marchesato in favore del fratello Rodolfo (che si macchiò di delitti, subì la scomunica e infine venne ucciso), mentre tra la gente semplice c’era chi commentava: «Non eravamo degni di averlo per padrone. Egli è un santo e Dio ce lo ha tolto».
Nello stesso anno cominciò il noviziato tra i gesuiti a Roma, dove in breve si accorsero di avere davanti un’anima prediletta, già formata alla penitenza e all’orazione (già a 12 anni aveva deciso di meditare e pregare cinque ore al giorno), tanto che alcuni padri arrivarono a comandargli di limitare quel suo ardore, ritenendo che potesse fargli male alla salute, sebbene lui dicesse che il raccoglimento in Dio gli era «quasi diventato connaturale, e vi trovo quiete e riposo e non pena». Tra i suoi insegnanti di teologia ebbe san Roberto Bellarmino (1542-1621), che assistette spiritualmente il giovane fino al letto di morte, ne promosse la causa di beatificazione e volle che la propria tomba fosse accanto a quella di Luigi. Il quale, durante la siccità e la serie di malattie infettive che colpirono Roma nel 1590-91, girò per le case dei nobili a raccogliere elemosine per i bisognosi e si distinse nell’assistere i malati, in cui vedeva il volto stesso di Cristo.
Il 3 marzo 1591 s’imbatté in un appestato abbandonato per strada e non esitò a caricarselo sulle spalle fino in ospedale. La peste contagiò anche lui, ma la malattia che lo portò alla morte il 21 giugno (a 23 anni) non lo turbò affatto, preparato com’era all’incontro con Dio: «Me ne vado felice», diceva a tutti. In quei giorni scrisse alla madre una lettera da vero credente in Cristo: «Madre illustrissima, devi gioire grandemente perché per merito tuo Dio mi indica la vera felicità e mi libera dal timore di perderlo. Ti confiderò, o illustrissima signora, che meditando le bontà divine, mare senza fondo e senza confini, la mia mente si smarrisce. Non riesco a capacitarmi come il Signore guardi alla mia piccola e breve fatica e mi premi con il riposo eterno e dal Cielo mi inviti a quella felicità che io fino ad ora ho cercato con negligenza […]. O illustrissima signora, guardati dall’offendere l’infinita bontà divina, piangendo come morto chi vive al cospetto di Dio […]. E tu continua ad assistermi con la tua materna benedizione, mentre sono in mare verso il porto di tutte le mie speranze».