14 Agosto San Massimiliano Kolbe

«Rimettiti in tutto alla Divina Provvidenza attraverso l’Immacolata e non preoccuparti di nulla», è l’insegnamento al centro della spiritualità di san Massimiliano Maria Kolbe (1894-1941). Il «martire dell’amore» ricordò al mondo, nel bel mezzo della distruzione dell’umano attuata nei lager nazisti, tutta la fecondità e potenza della fede, sacrificandosi per salvare un padre di famiglia.

Secondo di cinque figli, era nato in Polonia da due ferventi cattolici, che lo battezzarono il giorno stesso della nascita con il nome di Raimondo. Già da bambino ebbe una visione della Vergine che gli porgeva due corone di fiori, una di gigli, simbolo della verginità, l’altra di rose rosse, simbolo del martirio. Le accettò entrambe. A 16 anni vestì l’abito dei francescani conventuali assumendo il nome di fra Massimiliano; e quattro anni dopo, all’atto della professione perpetua, vi aggiunse quello di Maria.

Era arrivato intanto a Roma, dove si laureò in filosofia e teologia. Il Rosario e l’adorazione eucaristica animavano ogni sua giornata. Già negli anni in collegio alcuni compagni si erano accorti di avere un santo tra loro, come testimonierà padre Giuseppe Pietro Pal: «L’amore fraterno di Massimiliano era davvero come quello del Vangelo. Quando nelle nostre conversazioni parlavamo di quanto poco venissero osservate le regole nel nostro collegio, mi diceva di pregare per i peccatori. Non l’ho mai sentito parlare male di qualcuno. Soffriva nel vedere gli altri trasgredire le regole». Consapevole della piaga del modernismo e dell’odio contro la Chiesa diffuso dalla Massoneria, il 16 ottobre 1917 fondò insieme ad altri sei compagni la Milizia dell’Immacolata. L’idea era di consacrare a Dio, attraverso Maria, quante più anime possibili, aiutandole a guadagnare la salvezza eterna. «Chi ha Maria per madre, ha Cristo per fratello», insegnava.

Il santo sapeva infatti bene che la fede genuina s’incarna nella Chiesa militante, chiamata a combattere il Maligno e far conoscere e amare Dio, lavorando all’instaurazione del Suo Regno con l’aiuto di Maria. A questo fine, già ammalato di tubercolosi, diede inizio a una rivista, Il cavaliere dell’Immacolata. Era convinto della necessità di un apostolato attraverso i mezzi di informazione, per trasmettere la bellezza delle verità di fede e di morale, già all’epoca attaccate da «propagatori senza numero». Diceva: «Un missionario della penna […] forma l’opinione pubblica, attenua l’avversione nei confronti del cattolicesimo, chiarisce e lentamente rimuove dalle menti prevenzioni e obiezioni inveterate, predispone a una graduale lealtà nei confronti della Chiesa e col tempo […] alla fiducia, infine al desiderio di conoscere più a fondo la religione».

Le sue idee e la sua carità accesero di entusiasmo una moltitudine di giovani. La sua rivista giunse a una tiratura di milioni di copie. Nel 1927 fondò in patria un convento chiamato Niepokalanów («Città dell’Immacolata»), che si dotò di una tipografia e di un seminario vocato alla missione: in dieci anni si era formata attorno una cittadella e ospitava oltre 700 frati. Esportò lo stesso modello a Nagasaki, dove il Mugenzai no Sono («Giardino dell’Immacolata») accoglierà gli orfani di guerra. Fondò una stazione radio, la SP3RN (Stazione polacca 3 Radio Niepokalanów), e per questo motivo è patrono dei radioamatori. Dopo l’invasione della Polonia i nazisti lo imprigionarono per quasi tre mesi insieme ad altri 37 confratelli. Una volta rimesso in libertà, il francescano tornò alla «Città dell’Immacolata» trasformandola in un ospedale e rifugio per migliaia di ebrei e feriti.

Fu definitivamente arrestato dalla Gestapo il 17 febbraio 1941 e a maggio venne trasferito ad Auschwitz. La fuga di un prigioniero fece scattare la dura ‘legge’ nazista: dieci prigionieri vennero condannati a morire di fame nel Blocco 13. Tra questi vi era un padre di famiglia, Franciszek Gajowniczek (il 10 ottobre 1982 assisterà alla canonizzazione di padre Kolbe), che parlava disperatamente della moglie e dei figli. Il santo si offrì di prendere il suo posto. «Chi sei tu?», gli chiesero i nazisti. «Un prete cattolico», rispose lui, che per due volte aveva già celebrato segretamente nel lager la Santa Messa, distribuendo il Corpo di Cristo a una trentina di detenuti. I nazisti, sorprendentemente, accettarono lo scambio. La calma del sacerdote polacco li impressionò e, come dirà un testimone, il capo del bunker lo considerava «un eroe addirittura sovrumano».

Nelle due settimane di isolamento senza cibo padre Kolbe non si lamentò mai, confortò gli altri prigionieri, parlò loro del sacrificio e amore di Gesù, li fece pregare ed elevare inni sacri. Il 14 agosto, vigilia dell’Assunta, sopravvivevano ancora lui e altri tre uomini. Le SS decisero di farla finita con un’iniezione di fenolo. Fu allora che al capoblocco dell’infermeria disse: «Lei non ha capito nulla della vita, l’odio non serve a niente… solo l’amore crea!». Porse il braccio al carnefice pronunciando le sue ultime parole terrene: «Ave Maria». Testimonierà il carceriere: «Quando riaprii la porta di ferro, già non viveva più; ma mi si presentava come se fosse vivo. Ancora appoggiato al muro. La faccia era raggiante in modo insolito. Gli occhi largamente aperti e concentrati in un punto. Tutta la figura come in estasi. Non lo dimenticherò mai».

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